La Giornata della Memoria
Attraverso le parole di Nereide Rudas
“La gente è stufa di sentire parlare degli ebrei. Tra un po’ sui libri di storia sulla Shoah ci sarà solo una riga”. Sono queste le parole che la Senatrice Liliana Segre ha usato a proposito della Giornata delle Memoria. La semplicità e la durezza di queste parole meritano qualche riflessione perché ci pongono davanti ai rischi dell’oblio che può riguardare anche eventi drammatici come l’Olocausto. Viene da chiedersi se e come sia possibile dimenticare, ma la senatrice Segre ha fornito una risposta che è insieme una riflessione sul presente, e un appello all’impegno politico per il futuro. Secondo la senatrice la scomparsa delle vittime sopravvissute all’eccidio, che hanno trasformato il ricordo individuale in memoria pubblica collettiva, apre la porta all’oblio, a meno che non vi sia una volontà collettiva che, attraverso le sue istituzioni e nei processi formativi, prosegua l’impegno politico della memoria. Come riconosciuto dalla stessa Segre con il suo riferimento ai libri di storia, l’esperienza scolastica costituisce il momento formativo centrale nella vita degli individui a cui deve essere assegnato il compito di coinvolgere tutti e tutte nella conoscenza degli eventi e nella loro ferma condanna. Il tema si intreccia con quello della persistenza della coscienza e della cultura dell’antifascismo messa in dubbio proprio nel momento in cui, con il susseguirsi delle generazioni post-belliche, la testimonianza diretta è stata sostituita dal ricordo trasmesso nei contesti familiari e pubblici. Lo scorrere del tempo individuale e storico può favorire un affievolimento della partecipazione alle vicende storiche collettive che finiscono per divenire, nei casi migliori, come preziosi tesori nelle mani di attenti custodi. Ma il loro valore e il significato nella memoria di una collettività politica sono garantiti dalla vitalità che essi sono in grado di esprimere e che può essere garantita solo da coloro che vivono, che scelgono di sentirsi eredi di quella memoria. Da semplici custodi ciascuno/a di noi è chiamato a divenire medium di conoscenza e consapevolezza collettiva.
Sin dalla sua fondazione, l’Istituto Gramsci della Sardegna ha cercato di assolvere questa funzione collettiva impegnandosi nella trasmissione della memoria di Antonio Gramsci e della sua eredità culturale, intellettuale morale e politica che si basa, in primo luogo, sull’antifascismo. Per questa ragione, il processo di costruzione della memoria è al centro dell’attività dell’Istituto a cui è stato costantemente richiamato da Nereide Rudas, che per molti anni ha speso il suo impegno politico a servizio dell’Istituto.
Nei suoi scritti, in ambito professionale e nella sua vita privata, Nereide ha sempre assegnato alla memoria un ruolo centrale quale dimensione fondamentale nei processi di costruzione delle identità individuali e collettive. Il tema è magistralmente sviluppato nel suo libro “L’Isola dei Coralli” in cui la poesia, la memoria individuale e collettiva spiegano lo sviluppo storico dell’identità sarda. Nell’attività dell’Istituto, Nereide dedicava particolare attenzione alle occasioni di commemorazione e celebrazione, alla riconoscibilità dei luoghi mediante targhe e simboli che consentissero a chiunque vi si imbattesse, anche distrattamente e frettolosamente, di non dimenticare trasformando quel luogo fisico in un luogo della memoria.
La stessa attenzione era riservata da Nereide ai ricordi personali, agli oggetti, alla musica ai fogli di carta su cui annotava meticolosamente il fiume dei suoi pensieri poetici o le note di lavoro che riguardavano i suoi pazienti. Il significato di questi pezzi della sua esistenza non era mia solo intimo, ma anche nella riservatezza, trovava il suo modo per divenire memoria.
È in questa prospettiva che può leggersi il suo libro Storie senza che partendo dalla sua esperienza professionale nei luoghi della sofferenza psichiatrica trasforma le biografie delle anime che lo popolano in testimonianze di denuncia della loro umiliata condizione all’interno di un’istituzione totale. I volti, le voci, i percorsi di queste donne prendono questa forma nella memoria e nella parola scritta che le trasforma da storie in Storia. Per questa ragione, la loro voce di donne ci pone davanti, come l’Olocausto, alla terribile responsabilità della memoria collettiva.
A Nereide, quindi, affidiamo il compito di esprimere con le sue parole che sanno rimanere anche tenere e consolatorie, la nostra denuncia contro ogni privazione della libertà.
Il brano che segue è uno stralcio della “Lettera di un’ebrea di Auschwitz” contenuta nel già citato libro Storie senza.
“Carissima,
questa mia lettera forse non ti arriverà mai….una lettera di solito si scrive per dare notizie di sé o per esprimere stati d’animo. Ma né l’una, né l’altra cosa sono qui possibili. Non si può dare notizia di sé stessi quando non si è più se stessi. Né si possono esprimere, per le stesse ragioni, stati d’animo. E tuttavia io vivo ormai solo per questa lettera, scritta nel vuoto e indirizzata al vuoto.
….non siamo persone, ma il nostro involucro. Questo involucro urla, mangia, lavora. Tutte queste operazioni sono durissime, impossibili da tollerare in condizioni normali. Ma ad Auschwitz, che è un impossibile, ogni impossibile può avverarsi….Non so neanche come chiamare quella torturante esperienza che mi ha segnato per sempre…se sopravviverò continuerò a essere una deportata e una torturata. Ci sono cose che non si dimenticano , che non si possono dimenticare. Non è solo una questione di oblio.
Noi invece ci vergognavamo con un’intensità quasi bruciante, mia provata prima. era un senso di colpa che andava oltre l’azione involontaria commessa: era la colpa per la nostra relativa potenza. Eravamo sopravvissute e davanti a quei morti innocenti celebravamo il nostro primo elementare trionfo..
C’era un attentato alla barriera della mia individualità, un assalto alla distanza psicologica, esistenziale che sempre frapponevo tra me stessa e gli altri.
….
Anche nel mio giardino, contaminato da Auschwitz, lo spirito familiare, anzi quello umano, si era irreversibilmente estinto.
(Da Storie senza, Carocci, 2001)